Noi oltre la malattia

Raccontiamoci

In questa Rubrica, curata dalla nostra dolcissima Stella, vi accompagneremo a conoscere le storie di pazienti con desmoide provenienti da tutto il mondo:
“Perché dietro la malattia, c’è  sempre una storia da scoprire”

Lei è Alessia, ha 36 anni e viene da Napoli dove convive con un magnifico compagno.

Alessia ha solo 26 anni quando scopre il suo tumore desmoide e di quei momenti ricorda “mentre mi stavo truccando notai una pallina alla base del collo. Subito mi allarmai e grazie a un amico medico riuscii a fare tutte le indagini del caso”.

Quella pallina sul collo – che si scoprirà essere un tumore raro- si trova ad oggi nel muscolo scaleno fin quasi a sfiorare il polmone per poi scoprire qualche anno fa che un’altra massa si trova nel torace, lato destro. Come racconta Alessia “quest’ultimo non era stato evidenziato prima perché i miei controlli si concentravano solo su testa e collo.!

Le ci sono voluti 5 mesi e una prima diagnosi errata per arrivare a dare un nome a quella massa e a proposito mi dice “la primissima diagnosi di un citologico fu fascite nodulare che mi ha portato a commettere una serie di errori. Andai da un fisiatra che mi prescrisse delle terapie strumentali quali tecar e ultrasuoni che mi fecero lievitare la massa tanto da sembrare di avere due teste”.

La disavventura di Alessia però non termina qui e quando le chiedo se è poi riuscita a trovare un medico competente in materia mi risponde: “No. Soltanto dopo un disastroso intervento e una conseguente recidiva, cercando su internet mi sono rivolta all’Istituto IRCSS, adesso sono nelle mani della dottoressa Palassini”.

Per la giovane donna quei momenti non sono stati facili, appena laureata e con la sola voglia di spensieratezza si ritrova a combattere contro dolori atroci, insopportabili.

L’operazione infatti – scelta per la enorme grandezza del tumore- le ha causato problemi a lungo termine. Con il 99% della massa infatti le sono state tolte importanti terminazioni nervose del braccio destro con la conseguente perdita della funzionalità dello stesso.

Di quei momenti ci dice “mi sforzavo di condurre una vita sociale e lavorativa normale e adatta alla mia età”. Spiega inoltre che ringrazia la sua forza e l’appoggio di familiari e amici per aver superato i momenti più critici.

Tanta forza di volontà dunque e anche diversi tentativi farmacologici hanno accompagnato Alessia in questo duro percorso.

La giovane paziente ha di fatto provato il Celebrex che per lei era come “acqua fresca” per poi arrivare a un percorso chemioterapico di 33 infusioni di Methotrexato e Vinorelbina per 12 mesi.

Affrontare la chemio per una ragazza nel pieno della sua giovinezza non è affatto facile e di quei giorni ricorda “l’aspetto più duro è stato quello di dover affrontare il dolore ogni 7/10 giorni. Non dolore fisico ma dolore d’animo. Entravo li, ero la più piccola e mi confrontavo ogni volta con persone che avevano una malattia diversa. Quindi provavo a chiudermi in me stessa, con il mio cellulare e sperando che quei 30 minuti volassero. Mi sentivo quasi in colpa che i miei capelli erano tutti in testa e che la mia terapia durasse solo 30 minuti”.

Tutto quel dolore mentale è però servito e definisce la chemio come un salvavita: la massa si è ridotta e il dolore è sparito.

Alessia ha dovuto certamente rimettere a fuoco la sua vita e ad oggi ha imparato ad apprezzare la vita e le piccole cose anche se non ha accettato affatto questa malattia.

La sua più grande paura era quella di morire ma il suo coraggio risiede nel vivere ogni giorno con il sorriso e –dopo avermi detto quanto secondo lei fosse importante il supporto di un’associazione pazienti- mi ricorda che il suo motto è proprio quello che contraddistingue la Desmoid Foundation.

                                           “La vita è il 10% cosa ti accade e per il 90% come reagisci”

Lei è Sara, ha 4 anni e viene da Varese.

Sara è una bimba solare, testarda e ha un caratterino così particolare da farla sembrare quasi un’adulta.

È il novembre del 2019 quando la mamma, Francesca, si accorge che Sara non sta bene, ha la febbre. Un malessere come un altro pensa, eppure dentro di sé sente che qualcosa non va: c’è qualcosa di insolito, di diverso.

Passano i giorni, la febbre va via ma sul viso della bambina è comparso un bozzo, a livello della mandibola. Francesca allarmata decide di portare Sara dal pediatra. La decisione di quest’ultimo è chiara: una terapia antibiotica e un’ecografia.

L’esito evidenzia un linfonodo adeso alla mandibola, il pediatra chiede che Sara venga ricoverata. I genitori si recano dunque al pronto soccorso ma per Sara niente ricovero. La motivazione è semplice: le analisi sono in miglioramento, quel che si può fare è ripetere urgentemente un ulteriore esame diagnostico.

Il giorno dell’ennesima ecografia arriva e con esso anche il ricovero. C’è qualcosa che non va in Sara, quel bozzo non ha un nome: è indecifrabile, i medici vogliono approfondire.

Francesca è terrorizzata dall’idea che possa essere un tumore, dice al dottore di voler sapere cosa ha la sua bambina, di qualunque cosa si tratti vuole assolutamente dare un nome a quella cosa che sta facendo soffrire sua figlia.

“Non è un tumore” le dicono e Francesca sembra crederci, vuole crederci. Lei sembra sollevata eppure quella sensazione in fondo al cuore permane. Francesca si impone con tutte le forze di credere che vada tutto bene, addita il marito di essere negativo eppure lei sa che il suo atteggiamento serve solo a “far finta” che vada tutto bene.

Passano quindici interminabili giorni, Sara viene dimessa e non c’è nessuno che possa dare un nome a quel bozzo sul viso.

Con tanta determinazione i genitori della piccola non demordono, sono decisi a trovare un nome a quel bozzo, vogliono avere una diagnosi ma soprattutto cercano una cura alla sofferenza della bambina. Così, dopo visite, tentativi e una ipotesi di resezione chirurgica, la mamma e il papà di Sara si recano al reparto di onco ematologia di Varese.

I dottori decidono di fare una risonanza alla piccola Sara in vista di una possibile operazione, la sedano, le praticano una biopsia e scoprono che la bimba è affetta da un tumore benigno raro: fascite craniale. La dottoressa che la segue, per maggior zelo, invia la piccola paziente all’istituto tumori di Milano per ripetere l’istologico e dopo pochi giorni arriva un nuovo verdetto. È vero: Sara ha un tumore benigno raro ma il suo nome è tumore desmoide. La diagnosi questa volta sembra certa, Francesca e il marito si recano dal dottor Chiaravalli, del reparto di pediatria dell’Istituto dei Tumori di Milano, per una conferma.

“Si, è un tumore desmoide. Sono necessari dei controlli.. della chemioterapia se serve. Il nostro obiettivo è che la malattia si stabilizzi, la regressione può essere solo un’ipotesi”.

Parole chiare, nette. Parole che descrivono un’amara realtà. Dopo tanta angoscia si è riusciti a dare un nome alla malattia, dopo tanta angoscia però, si è scoperto che per questa malattia non esiste una cura specifica, esistono solo tentativi.

Tentativi. Come se fosse facile convivere con l’ipotesi che tua figlia possa star bene o male a seconda dei tentativi.

 

Dolore, sofferenza, sacrifici.. tutto per sperare che il tumore si arresti.

Dolore, sofferenza, sacrifici e non poter neanche sperare nella risoluzione della malattia.

Sara però è forte, Sara inserisce il porth a cath, Sara inizia la chemioterapia e Sara ad Agosto vince: il tumore è regredito, il tentativo ha funzionato, il tumore si è stabilizzato.

Lei, la bimba testarda e spensierata ha affrontato tutto questo con grande coraggio, con fierezza, accettando – non senza fatica – di non andare più all’asilo.

Su Francesca, invece, grava ancora la paura che tutto possa andare male e quando le chiedo se ha accettato o se ha metabolizzato questa nuova situazione mi dice “non so se ho accettato pienamente la situazione di Sara, non voglio neanche chiamarla malattia. Fin quando è sotto chemio sento che lei è, paradossalmente, “protetta”… ma dopo? Che succederà? Questo non riesco ad accettarlo: l’incognita sul futuro, il non sapere.
Io non sono una persona forte, lei lo è. Lei è la mia roccia e la mia forza dipende dalla sua”.

Per quanto riguarda il futuro mi racconta “la mia paura è che lei non possa svolgere una vita simile a quella di tutti gli altri bambini. Lo so, sono preoccupazioni stupide, in fondo la cosa più importante è che lei sia con noi, sempre.” Perché come ci ricorda questa mamma coraggio “non tutti i mali vengono per nuocere” perché questa nuova vita, questa esperienza, ha reso questa famiglia capace di apprezzare le piccole cose, li ha resi capaci di trovare il lato positivo perché nella loro famiglia l’importante è essere uno accanto all’altro e sostenersi.. sempre.

Lei è Federica, ha 27 anni e viene da Pescara.

Quando Federica ha 18 anni è un’adolescente come le altre, esce con gli amici, frequenta la scuola e – all’ultimo anno di Liceo- pensa al suo più grande obiettivo: diplomarsi.

I giorni da liceale passano spensierati poi però qualcosa le fa comprendere che no, non sta bene come sempre, stare seduta sei ore su una sedia non è semplice.

Federica infatti si accorge che alla gamba sinistra ha qualcosa di strano

Nella parte inferiore del gluteo sinistro iniziò a sporgere una protuberanza

Da quel giorno iniziarono i controlli medici, le visite al pronto soccorso, le ecografie e le risonanze.

Può darsi sia uno strappo” le dicono.  Si può solo immaginare il sollievo che la pervade nel sapere che non è nulla di grave, peccato però che questa sensazione sia solo passeggera: Federica continua a sentire male e no, non può essere un semplice strappo.

La diagnosi è arrivata dopo alcuni mesi. Eseguita la risonanza con il contrasto, l’ortopedico della mia città mi consigliò di rivolgermi ad un altro centro più specializzato, in particolare mi diede i contatti di quello che è ancora oggi il mio medico

Federica, infatti, è  ad oggi seguita dall’ospedale Cisanello di Pisa dal Professor Rodolfo Capanna. Il suo tumore collocato nell’adduttore, muscolo gracile e sopra e sotto il ginocchio della gamba sinistra ha dimensioni che variano dai 2 ai 13 cm.

Sono diversi i protocolli a cui si è dovuta sottoporre: il protocollo di sorveglianza attiva, Celebrex, Terapia ormonale, Chemioterapia. Sono state eseguite anche tre operazioni chirurgiche e la Crioablazione.

Come mi racconta “La chemioterapia è stata decisamente la terapia più dura.

Accusavo nausea e vomito, le transaminasi si alzavano e più volte ho dovuto sospendere la terapia.

È stata talmente dura per me che ha intaccato anche l’aspetto psicologico fino ad accusare attacchi di panico. Inoltre le terapie farmacologiche quali Celebrex, terapia ormonale e chemioterapia hanno bloccato la crescita della massa per un tempo molto breve per poi ricominciare a crescere.”

Del momento della diagnosi invece mi dice “provai molta rabbia infatti mi scagliai contro i miei genitori aggredendoli con urla, insulti e pianti.”

Sentimenti di questo tipo sono molto diffusi tra chi riceve una diagnosi di tumore, cosi come tra chi deve affrontare terapie molto invasive come la chemioterapia.

La diciottenne di allora però ha avuto accanto a sé le persone che più la amano

“I miei genitori e il mio ragazzo sono le persone che mi sono state più vicino.”

L’aiuto dei parenti nell’affrontare questa situazione è certamente necessaria, un supporto psicologico e materiale fa sentire meno soli i pazienti affetti da questa rara patologia.

Fortunatamente Federica – nonostante il parziale fallimento terapeutico-  non  ha limitazioni importanti, può camminare normalmente grazie a un’ottima fisioterapia dopo la resezione chirurgica, non può però praticare sport agonistico e alle volte si sente stanca ma questo a lei non arreca nessun disagio.

Quando le chiedo quale sono state le sue paure al momento della diagnosi e quali sono quelle attuali mi racconta che “Il giorno della diagnosi non avendo informazioni chiare la paura principale era la morte. Oggi le mie paure sono differenti, ho paura di non poter diventare mamma, ho paura di non riuscire più a camminare.”

In passato ha avuto la necessità di parlare con uno psicologo, oggi invece, grazie alla sua forza di volontà e una buona dose di resilienza ha imparato a “viversi il momento” rendendosi capace di accettare la malattia.

Il tumore desmoide l’ha fatta maturare, la paura iniziale è scomparsa nel momento in cui ha preso consapevolezza che con una malattia cosi devi saperci convivere, imparando quanto sia importante vivere qui e ora e non  lasciando la propria vita sospesa tra una risonanza e l’altra. Perché -come ci ricorda- l’importante in questa vita è

                                    saper indossare le nostre cicatrici come fossero ali.

 

Lei è Simona ha 43 anni e vive a Roma.

Madre di una splendida bimba di 5 anni e compagna di un padre e uomo meraviglioso, lavora nel servizio ICT di una società concessionaria di servizi assicurativi per la pubblica amministrazione.

È il Febbraio del 2018 e Simona scopre di essere nuovamente incinta. Emozionata e spaventata ,come qualsiasi altra donna, Simona sente dentro di sé  la responsabilità di una nuova vita, una futura compagna o compagno per la sua bimba che all’epoca aveva solo due anni.

La gioia della scoperta però si mescola a una nuova sensazione, una paura forse immotivata ma che si palesa nella sua mente.

Simona, infatti, un giorno e tutto ad un tratto sente un piccolo dolore, proprio  sotto il seno sinistro.

Toccandosi  sente un bozzo, pensa subito ad un movimento sbagliato. È incinta, ha una bimba  di 2 anni che vuole essere presa in braccio, pensa che si, non ci sia nulla di cui preoccuparsi, sarà qualcosa di passeggero.

Il tempo passa, il bozzo resta e purtroppo quella paura che sente crescere dentro di sé rimane, si concretizza: la gravidanza è bianca, il feto non si era formato, l’aborto naturale e il raschiamento poi, sono l’unica soluzione.

Triste e delusa affronta questa fase, accoglie con delusione il destino ma con grande forza si rialza e pensa che si, adesso è arrivato il momento di scoprire cosa sia questo bozzo. Lo deve fare per lei, per sua figlia e per il suo compagno.

Decide così di effettuare un’ecografia, se c’è qualcosa, pensa, è arrivato il momento di scoprirlo, di dargli un nome.

Arrivata dal medico lui mi chiede come mai io abbia deciso di fare questo esame diagnostico, mi pone alcune domande e tra queste un “ha mai subito traumi?” e al mio no…il suo viso cambia…La sua espressione mi allarma, il suo volto, il suo tono di voce tutto era cambiatoEsco dalla stanza, piangendo, quella paura atavica era riaffiorata, capisco che da quel momento in poi sarà tutto diverso.”

Spinta da una grande forza di volontà  inizia la trafila di analisi e visite, incontra il chirurgo Anzà dell’IFO che le spiega cosa potrebbe avere. Il chirurgo la accompagna per tutto il percorso: la Pet, l’istologico e infine il risultato: Tumore Desmoide retto addominale sinistro, da 3 cm con la gravidanza cresce per poi stabilizzarsi sui 5. La paura più grande? Quella di non poter prendere più in braccio la sua bambina.

“Quando ho scoperto che era raro mi sono detta, beh, io o le cose le faccio bene o non le faccio proprio”.

Tutto è successo così velocemente, il percorso tra tac e risonanze è iniziato a marzo e a maggio la diagnosi.

“Il medico di base aveva ipotizzato un lipoma” mi dice, un errore comune nel nostro caso, ciò che è certo è che mai avrebbe pensato a un tumore, “neanche nei miei incubi peggiori”.

Questa mamma coraggio viene accompagnata da un’amica dottoressa dal chirurgo specializzato  che poi, una volta diagnosticato il Desmoide, si mette da parte, indirizzandola dal gruppo di oncologi specializzati  in tumore desmoide, presso l’IFO di Roma dove segue il programma di sorveglianza attiva.

 

Paura, smarrimento sono i sintomi collaterali di un tumore raro. Una malattia che non colpisce solo Simona ma tutti quelli che la amano, che la circondano: dai parenti agli amici.

Ancora una volta questa donna ha dovuto accettare il destino, che proprio in quell’anno  le stava giocando un brutto scherzo, la stava costringendo a vivere un dolore inaspettato, continuo.

Si è fatta forza Simona, ancora una volta per lei, per sua figlia, per la sua famiglia.

“Oggi seguo il protocollo “watch and wait” letteralmente “guarda e aspetta”, ogni 4 mesi entro in quel macchinario infernale e rumoroso e semplicemente aspetto il verdetto, come se fosse una lotta tra me e lui, chi vince? Chi perde?

Se dovessi spiegare la mia malattia direi che è un tumore che colpisce prevalentemente donne”

Le donne, le più forti, le più colpite.

Un tumore che non permette una gravidanza serena, priva di conseguenze. Una donna che deve scegliere tra la stabilità del tumore o una nuova vita.

Per Simona il rimpianto è l’assenza di una sorellina o fratellino per sua figlia. La più grande fregatura le limitazioni che questa malattia comporta.

“Inutile dire che cerco di non pensarci per superarlo perché non è cosi, il pensiero c’è e ci sarà sempre, però cerco di lottare con tutte le mie forze e il mio coraggio. Cerco di vivere la mia vita come prima, non ho saltato neanche un giorno di lavoro, mia figlia  mi da la forza di scalare le montagne e do spazio alle mie emozioni”.

Quando le chiedo se ha  accettato la malattia mi dice  “no, non l’ho accettata e non credo di volerlo fare, non l’ho voluto io il tumore e non lo voglio quindi lo combatto. Non mi sono rassegnata, ci convivo per ora, ma ogni giorno cerco di sconfiggerlo”

Di fronte a una diagnosi così Simona consiglia  di sfogarsi il più possibile, di piangere e  urlare. “Lasciatevi andare, non fatevi fermare dalla paura ma siate più veloci… e poi lottate, e perché no unitevi a questa famiglia che è la nostra associazione, perché insieme siamo più forti.

Gli errori si commettono per imparare, non credo di aver fatto qualcosa di proposito per meritarmi il tumore, faccio o cerco di fare sempre tutto con il cuore quindi non rinnego nulla, credo che ci sia un motivo per tutto, anche la gravidanza che non è andata, credo che servisse per farmi sapere che lui c’era…perché lui c’è? Ci sto ancora lavorando”

Il suo messaggio è quello di “non arrendersi mai, di continuare ad andare avanti e seguire i nostri sogni, se serve rallentiamo, indietreggiamo ma per prendere la rincorsa e correre ancora. Non siamo soli.

Per quanto riguarda l’associazione, di cui fa parte ed è parte integrante, un enorme aiuto ci dice “l’associazione ci aiuta nel percorso, risponde a tante domande che ci poniamo, ci può dare indicazioni giuste, ci guida. È importante andare da chi il desmoide lo conosce davvero e l’associazione ce li indica“.

Questa è quindi Simona il cui motto è “la vita è come una foto se sorridi viene meglio”  perché durante tutti i miei 43 anni non ho mai smesso di sorridere, ma quella che mi accompagna in questa lotta è “sei debole solo se ti convinci di esserlo”.

Lui è Massimiliano, ha 33 anni e vive in provincia di Cagliari. Massimiliano è una persona attiva e impegnata. Borsista di ricerca presso l’Università degli Studi di Cagliari e tutor didattico, Massimiliano ama passare momenti di spensieratezza con amici, viaggiare e non ha paura di dedicarsi momenti per se in solitudine.

 Era il primo settembre 2017, mi trovavo in piedi, in costume, alla fine di una giornata di mare, e mi venne chiesto cosa fosse quella sporgenza che avevo dietro al ginocchio. Risposi che non era nulla. L’avevo già notata in precedenza, ma come sempre, pensai che fosse una cosa normale, magari dovuta alla mia postura, al mio modo di camminare storto, o chissà a che cosa. Venni comunque convinto a fare un primo controllo, a cui seguì un secondo, un terzo, e poi tanti altri, fino ad arrivare al 24 ottobre 2018 quando, davanti a delle problematiche ospedaliere che mi invitavano a rimandare un’altra volta, mi imposi per farmi asportare quella piccola pallina, senza rimandare ulteriormente perché, come dice mia madre, “mai rimandare a domani quello che puoi fare oggi”. Lei aveva ragione, ma purtroppo il problema non si è risolto, anzi.

Dentro di me ammetto che c’è ancora della rabbia, delle domande a cui devo avere delle risposte, ma fatto sta che quando mi operarono commisero uno sbaglio. Non tanto perché l’ultima risonanza che avevano tra le mani era di sette mesi prima. Non tanto perché quando aprirono e videro che cercando A trovarono B. Ma perché operarono, tolsero quello che avevano sotto gli occhi, senza sapere cosa  fosse.

Come è noto ogni tumore desmoide presenta un comportamento clinico diverso. Come raccomandano gli esperti il primo approccio da seguire è quello della sorveglianza attiva ovvero controlli trimestrali attraverso l’uso della risonanza magnetica. Durante tale periodo conosciuto come “watch and wait” alcune masse restano stabili dopo un periodo di crescita,  altre invece crescono in maniera esponenziale rendendo necessario il trattamento farmacologico. Ciò che è certo è come la resezione chirurgica  sia l’ultima scelta possibile proprio a causa dell’elevata possibilità di recidiva.

Forse all’inizio sono stato troppo ingenuo, forse un po’ stolto, o forse troppo positivo, ma quando fin da subito mi dissero “aprendo non ci aspettavamo di trovare quello che abbiamo trovato” non feci particolarmente caso a quelle parole. Per me la cosa era stata tolta, avevano semplicemente trovato una massa più grande di una pallina, e quindi, forse, quattordici centimetri di ferita si sarebbero rimarginati con più tempo. Ma non era una situazione così rosea.

Dopo due mesi di silenzio, a febbraio mi invitarono a contattare l’ospedale oncologico di Cagliari, e da lì, dopo alcune visite e nuovi controlli, scoprì che il mio problema si chiamava Fibromatosi Desmoide. Mi dissero che operando tolsero una massa, che lasciò dei residui. E questi residui iniziavano a crescere. Solo nel corso del tempo ho capito che il tumore desmoide non va toccato, ma va monitorato. Per quanto ci siano diverse scuole di pensiero, l’ospedale che mi segue (INT Milano) mi ha sempre detto che il tumore va monitorato perché altrimenti torna in maniera più aggressiva. Quindi si, potrei dire che quando mi è stata tolta una massa, che si pensava fosse un neurinoma, hanno sbagliato.

Ci sono voluti  quindi due anni e un intervento chirurgico non necessario affinchè Massimiliano arrivasse alla diagnosi esatta. Anni che non si dimenticano non solo per la presenza di  una cicatrice che ti ricorda cosa hai passato ma soprattutto perché questa è una malattia che ha un forte impatto emotivo. Nessuno è mai realmente pronto per la diagnosi di un tumore, nessuno è pronto per gli  sguardi compassionevoli, per i numerosi “come stai” a tutte le ore del giorno e della notte.

Nessuno è mai realmente pronto per affrontare un dolore fisico ed emotivo. Neppure Massimiliano era pronto ad accettare che no, non stava procedendo tutto per il meglio, non era pronto a piangere, a sentirsi dire “non è né un tumore benigno né tantomeno maligno, è un tumore raro”.

I sintomi di questa malattia non sono niente in confronto all’attesa degli sviluppi. Sapere che non esiste una cura, sapere che bisogna soltanto monitorare, sapere che nessuno ti può dire cosa fare per alleviare il tuo dolore, è snervante. Le pulsazioni, il tremolio alla gamba, zoppicare, mi fa impazzire certe volte, ma sapere che non posso fare nulla mi uccide. Non è solo un dolore fisico, ma è un dolore mentale. Quindi, direi che è una malattia che ti uccide per l’attesa di uno sviluppo più del dolore.

 Adesso  Massimiliano sta affrontando il periodo di sorveglianza attiva perché il tumore desmoide è stabile  ma come ci spiega ci sono cose che non può più fare

ma la più importante la faccio senza problemi: vivere. Questa malattia mi ha insegnato che bisogna adattarsi senza mai smettere di vivere. Non posso correre, e non posso camminare per lunghi tragitti? Non importa, cammino e mi fermo quando c’è bisogno. Mi pulsa la gamba? Ascolto musica, chiacchiero con qualcuno, mi distraggo. Non posso fare un aperitivo perché sono sotto effetto di Lyrica? Non importa, mi prendo una Coca Cola. Non riesco a stare in piedi? Mi siedo. Non riesco a stare seduto? Mi muovo. Mi si addormenta la gamba? La accarezzo piano piano per risvegliarla. Bisogna sempre pensare in positivo, bisogna solo trovare la forza dentro noi stessi.

Questo è quindi Massimiliano un ragazzo tenace che spera un giorno questa malattia venga compresa e non ignorata. Spera che i dottori possano ammettere i propri limiti indirizzando i propri pazienti verso centri di cura specializzati. Spera che anche il più famoso degli istituti di previdenza sociale possa informarsi su questa malattia per garantire una certa assistenza a tutti coloro che soffrono di questa patologia. Questo giovane uomo – che grazie alla malattia ha scoperto che  la bellezza  risiede nelle piccole cose come nel ritrovarsi per la prima volta davanti la neve- ci consiglia di piangere e anche tanto ma poi di smetterla perché l’immobilità ci è nemica. Il suo motto infatti è “Nasco e rimango più frizzante di un’aranciata”.

Lei è Martina, ha 23 anni e vive a Follina, in Veneto. Martina è una ragazza solare e lavoratrice che si è trovata ad affrontare, a soli dieci anni,  qualcosa più grande di lei: La Fibromatosi Desmoide.

Ero ancora una bambina quando un giorno, durante le vacanze estive, i miei  genitori si accorsero di un bozzo al braccio. A tutto pensarono tranne a quello che, dopo un anno di indagine, si scoprí essere un tumore raro.

Affrontare la malattia di un figlio, si sa, non è mai facile ma doverne affrontare una  sconosciuta è davvero demoralizzante.

In quei momenti la dedizione di mia madre è stata fondamentale per evitare errori medici ed errate diagnosi. Indirizzandoci da medici specializzati la diagnosi fu più che certa: tumore desmoide localizzato sopra il muscolo sottoscapolare della spalla destra.

Come è possibile immaginare avere dieci anni e sentirsi dire che hai un tumore non è facile, non lo è dover affrontare settimanalmente chemio, vomito, stanchezza, magrezza cosi come non è semplice accettare che i tuoi compagni stanno vivendo una vita che a te non è  concessa.

Eppure in Martina non si è mai spenta la speranza, cosi, dopo due anni di chemioterapia,  la sua tenacia è stata ricompensata con la stabilizzazione della malattia fino a scoprire che, all’ultimo controllo effettuato presso lo IOV di Padova, il tumore non c’era più.

Il “pompelmo”  è andato via cosi come è venuto: senza sapere come. Un evento molto raro ma possibile. Certo, sono ancora tante le cose che non riesco a fare: allacciarmi i capelli, scrivere  e mangiare con la destra o servire ai tavoli ma queste limitazioni non hanno mai condizionato il mio modo d’essere e fare.

La malattia, infatti, cosi come le ha tolto tante cose è riuscita in realtà a donargliene molte altre. Grazie ad essa ha imparato ad essere indipendente, ha imparato che essere compatita non fa per lei, che non vuole più sentirsi la “diversa” come alle superiori. Un tumore e due anni di costanti e dolorose cure le hanno insegnato ad essere forte, a scoprire quali erano i suoi limiti e a superarli, a essere coraggiosa, paziente e a mostrarsi cosi com’è, senza paura o vergogna per il suo passato o per i suoi limiti.

Questa è quindi Martina, una ragazza come tante che nel suo piccolo, condividendo la propria storia, vuole sottolineare l’importanza di affidarsi a medici competenti e infondere a tutti coloro che hanno questa malattia la forza, la voglia di non abbattersi, di armarsi di calma perché come recita il suo motto “Il riso è il sole che scaccia l’inverno dal volto umano (Victor Hugo),”  “ cosi bisogna sempre sorridere, nonostante il male, nonostante la tristezza”.      

Lei è Carlotta, ha 32 anni e vive a Ravenna, in Emilia-Romagna. Carlotta è una donna forte, amante degli animali e un’orgogliosissima infermiera di rianimazione.

Ero appena diventata adolescente quando mi accorsi, a soli 14 anni, di un bozzo al seno, quello che in seguito scoprirò essere il mio primo tumore desmoide, “il primo di una lunga serie”.

Carlotta infatti ha la Sindrome di Gardner, una sindrome ereditaria di natura genetica che le porta ad avere polipi multipli di tipo adenomatoso a livello gastrico ed intestinale e la presenza di diversi desmoidi per tutto il corpo: seno, addome, inguine e torace. Tumori, questi, che variano quindi non solo di collocazione ma anche di misura: da pochi millimetri al più grande che è arrivato alla dimensione di 18 x 5 cm.

Come è possibile immaginare, vivere con questa patologia non è affatto semplice, sono diversi i dottori a cui mi sono rivolta, molte le visite in ospedale e tante le operazioni subite per quelli che mi avevano assicurato essere dei tumori benigni da poter asportare senza particolari problemi.

La rarità della malattia e l’errata diagnosi hanno quindi fatto si che mi sottoponessi a diversi interventi, più di dieci per la precisione. Quattro volte al seno, poi al torace e alla parete addominale, tutti con lo stesso esito: la recidiva. L’unico di cui però non sono pentita è quello al torace che, effettuato dopo la diagnosi avvenuta nel 2010, mi ha permesso di recuperare almeno la mobilità dell’arto sinistro nonostante si sia ripresentato. Infine nel 2016 un’altra grande decisione, quello di rimuovere totalmente il colon come trattamento preventivo.

Sono state tante, poi, le cure a cui mi sono sottoposta e continuo a sottopormi.

Prima la chemio a basse dosi, poi quella più forte con conseguente caduta di capelli, nausea, stanchezza, a seguire il Tamoxifene fino ad arrivare al Pazopanib, un farmaco davvero duro da sopportare.

Una cura che ho affrontato fino a pochi mesi fa  con determinazione e oculatezza, un farmaco che a causa degli effetti collaterali mi ha costretta ad assumerne altri, unita anche alla terapia antalgica che mi permette di tenere sotto controllo il dolore causato dai diversi tumori.

Da qualche mese per l’eccessivo tasso di effetti collaterali disabilitanti ha dovuto sospendere questa nuova terapia, in seguito l’equipe medica multidisciplinare che la segue ha provato a richiedere il nuovo farmaco, il Nirogacestat, in forma extra studio clinico, ricevendo però il diniego da parte della casa farmaceutica.

Ora da circa 3 mesi ho ripreso con la chemioterapia endovenosa a basse dosi, con la speranza di riuscire ad avere qualche effetto positivo.

Insomma, quella di Carlotta è la storia di chi sta affrontando la vita con coraggio, di chi non si è arreso, di chi continua a combattere e di chi crede nella forza della condivisione.

Carlotta che più di tutti ha creduto nel progetto Desmoid Foundation oggi è per tutti coloro che soffrono di questa patologia un punto di riferimento.

Lei che non ha mai realmente avuto paura della malattia, nonostante le restrizioni che essa ogni giorno le impone.  Lei che a causa dell’ereditarietà della malattia, al momento della diagnosi non ha temuto per se ma per i suoi cari. Lei che avrebbe voluto una gravidanza che non può avere , e che nonostante questo  ricorda a tutti come con la malattia si possa ugualmente convivere e che insieme possiamo essere importanti per tutti.  Lei che spera un giorno si possa arrivare a diagnosi più sicure, farmaci specifici e diritti per chi ancora, molte volte, non viene riconosciuto come malato dalle diverse commissioni mediche.

Questa è quindi Carlotta, una donna che non smette mai di ringraziare chi da sempre le è stata affianco: la sua famiglia e soprattutto Vittorio, un uomo a cui è legata da un sentimento profondo e che ha deciso di affrontare insieme a lei, sempre al suo fianco, la malattia con le sue continue cure, esami e ricoveri. Una donna grata alla vita nonostante tutto perché, come ci ricorda, l’importante è “non smettere mai di sorridere” perché nulla al mondo può toglierti il sorriso, nemmeno il tumore desmoide.

……presto altre storie…..